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C’era una volta un piccolo Paese. La sua infanzia fu colpita da un nemico, trasparente, invisibile. Ogni cittadino ne dovette pagare le conseguenze; ogni cittadino dovette resistere.

Si creò così un nuovo mondo, un mondo differente. Dove incontri erano sogni; dove sogni erano speranze. Dove scuola era studio virtuale, separato da uno schermo luminoso che abbaiava a ogni falsità di desiderio.

Tutti ormai avevano paura dei 100 centimetri di distanza tra due anime incredule.

La paura regnava in tutti i cuori.

Una cupola intrappolò il paese, privandolo dell’ossigeno per la vita.

L’arresa stava sconfiggendo ogni repressione, che scompariva nel vuoto dell’infinità. Si stava spegnendo la luce di ogni cuore dubbioso della realtà.

Sorse la gentilezza, che di ossigeno ne aveva un po’ con sé e decise quindi di donarlo, di donare fiducia, vita. Si accese il bagliore del miraggio, del sogno rinchiuso nell’illusione astratta.

Ci ostinavamo ad abbracciarci, a baciarci, a volerci bene, ricordando l’ultimo segno d’amore che ci sfiorò in quella tempestosa realtà. Dovevamo combattere con la volontà, la forza di non osservare l’orizzonte che superava il nostro campo di battaglia. Volavamo nella nostra immaginazione, che creava un mondo della perfezione reale oltrepassata dalla delusione del presente.

La vita era esattamente così: una lampadina sporca appesa ad una fune elettrica il cui unico generatore era la speranza.

C’era una volta un Paese.

C’era una volta l’Italia.

C’è ancora l’Italia.

 Filippo Di Canio 3 A

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